Il fervore elettoralistico

Il fervore elettoralistico è una costante della politica italiana
(d’altronde ci sono elezioni con una successione impressionante), cosicché
sembra che i partiti facciano qualche movimento, siano attivi e impegnati
sui problemi che la *nazione *deve affrontare. Un po’ meno infervorati sono
gli elettori che non vanno più a votare, tanto che la platea dei votanti si
è ridotta in questi ultimi anni a meno del 50% degli aventi diritto:
convincere le persone a recarsi alle urne sta diventando un’impresa sempre
più ardua per i partiti. Che però non si scoraggiano e proseguono il loro
impegno con abnegazione. Sempre certo per il bene del *popolo *e della
*nazione.*
Ad essere particolarmente infiammati in questi mesi sono i partiti della
sinistra, già orfana di un Draghi, di un Monti o di un Prodi, pervasi da un
afflato che li fa apparire seriamente intenzionati a mettere mano alle
questioni urgenti che ci affliggono. Così li vediamo tessere reti,
inventare le più ardite alchimie pur di riconquistare il favore degli
elettori e poter ritornare a governare in nome del popolo sovrano per
garantirne benessere e prosperità. In questo non si risparmiano, percorrono
lo stivale in lungo e in largo, accorrono in ogni dove è in corso una sfida
elettorale, vagliano candidature, interpellano personalità di provata
dirittura morale, a volte litigano, si separano e poi si riaggregano, ma
tutto sempre per il bene supremo e nell’interesse dei cittadini e delle
cittadine. C’è poi un’aggravante che rende ancora più impellente la
necessità di un’affermazione elettorale della sinistra (o almeno del
centro-sinistra): il governo di destra-destra straordinariamente incarnato
dalla prima donna italiana presidente del consiglio. E se questo governo,
in cui risuonano echi di un fascismo che fu e che nuovamente si invera
sotto i nostri occhi, ci trascina sempre più nel baratro di un
autoritarismo senza freni, spetta alla sinistra salvarci. Ecco!
Bene, tuttavia a questa sinistra, che adesso ha anche imbarcato il
movimento 5 stelle non più autodichiarantesi né di destra né di sinistra,
si potrebbe chiedere qual è l’idea di società che vuole contrapporre alla
destra-destra. Quali sono le sue proposte rispetto alle questioni veramente
fondamentali che oggi dovrebbero essere affrontate: guerra, ambiente,
clima, migrazioni, cui sono legate, e non certo in posizione subalterna,
tutte le altre: lavoro, uguaglianza, diritti, e via discorrendo. Ora
sarebbe troppo facile dimostrare per il recente passato come le politiche
dei governi di centro-destra si siano poste in perfetta continuità con
quelle del centro-sinistra, e viceversa, in una sorta di rincorsa alla
sottrazione dei diritti, all’indebolimento della classi lavoratrici e al
controllo degli sfruttati. Anzi, anche sul piano linguistico tali
espressioni sono bandite dalla comunicazione ufficiale: non esistono più
classi o sfruttati, né tantomeno padroni o sfruttatori, solo imprenditori
di se stessi e start up.
In un’intervista di qualche settimana fa al quotidiano La Stampa il
senatore Pd Graziano Del Rio, persona rispettabile, interpellato sugli
accordi del governo italiano con l’Egitto per fermare i migranti, alla
domanda su quali sono le proposte del Pd ha risposto: “Presto presenteremo
una proposta di legge: bisogna favorire canali di ingresso regolari e
nominativi. Chi vuol venire in Italia dovrebbe iscriversi a una lista con
nome e cognome, in modo che sappiamo chi entra nel Paese. Solo così puoi
scoraggiare le partenze e avere ingressi legali. Intendiamoci, nessuno ha
la ricetta magica in tasca per governare un fenomeno come questo, né noi né
la destra, ma insieme si potrebbe ragionare come un grande Paese europeo”.
E’ questo solo un esempio di una visione che rappresenta il migrante come
un potenziale pericolo (in cosa quindi si differenzierebbe dalla destra?) e
offre soluzioni risibili.
Nelle recenti elezioni regionali della Sardegna la candidata della
“sinistra”, Alessandra Todde, si è presentata con un programma infarcito di
tutto il consueto frasario modernista che crede di poter conciliare
capitalismo e giustizia, un riformismo tecnocratico capace di garantire la
transizione verso il nuovo mondo sostenibile e integrato, ecologista e
industriale, locale e globale. Eccone un estratto:
“Il mercato sardo del lavoro mostra un alto livello di precarietà e una
massiccia emigrazione giovanile, aggravata dall’invecchiamento demografico.
La strategia proposta punta a invertire l’emigrazione e attrarre talenti,
valorizzando l’alta formazione e l’inserimento lavorativo con un focus su
innovazione e smart working. Vanno coordinati gli sforzi per integrare
politiche attive, formazione, e servizi per l’impiego. È cruciale adattare
il mercato del lavoro alle dinamiche globali, promuovendo l’occupabilità e
l’integrazione dei migranti, con un occhio attento alla qualità e alla
dignità del lavoro”.
“Fare della Sardegna una Regione competitiva e attrattiva”, è scritto nel
programma. Quale destra non sottoscriverebbe tale affermazione?

Non si vuole qui dire che destra e sinistra sono la stessa cosa (ma è certo
che questa sinistra non ha una reale visione alternativa alla destra), e
non si starà qui a sostenere che le elezioni sono una truffa e che se
veramente contassero qualcosa le avrebbero abolite, cosa peraltro
intuitiva, tuttavia dal momento in cui oramai da qualche decennio
assistiamo ad una crisi irreversibile della democrazia rappresentativa,
della sua deriva verso forme autoritarie, tanto che si parla da più parti
di democratura, perché non avviare una riflessione profonda sul ruolo delle
elezioni e su modalità alternative di mettere in atto processi decisionali,
che promanino veramente da quel popolo che la politica istituzionale
utilizza come paravento e feticcio? Se non la sinistra-destra -che
spadroneggia sui media, si propone come valida alternativa alla
destra-destra e certamente non ha alcun interesse a modificare lo statu
quo, almeno quella che qualche anno fa veniva definita come sinistra
radicale dovrebbe avere più di un motivo e più di una ragione per sottrarsi
alla pantomima elettoralistica. A meno che non voglia rimanere prigioniera
in un sistema dal quale è già stata esiliata.

Angelo Barberi

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L’Europa con l’elmetto

U.E. Pericolosissima china guerrafondaia

La terza guerra mondiale si avvicina? Ucraina, Palestina, Mar Rosso sono i
fronti caldi di un quadro i cui protagonisti sono i medesimi, stesse le
sfide e le poste in gioco. Senza dimenticare l’Africa Sub-Sahariana, la
Libia, aree del Medio Oriente, come il Rojava dove l’esercito turco
approfitta delle “distrazioni” internazionali per portare avanti il suo
progetto di sterminio del popolo curdo.
Ma il segnale più inquietante, perverso ed evidente viene dall’Europa, in
cui crescono i pruriti verso un coinvolgimento diretto nel conflitto
russo-ucraino, giustificato da un ipotetico disimpegno statunitense nel
Mediterraneo, il cui vuoto andrebbe ricoperto da un rapido riarmo degli
Stati dell’Unione. Una strategia che sembra oramai più che definita (a
parte l’esitazione tedesca), e che non può tollerare ostacoli, nemmeno le
parole del papa sulla trattativa. E in ciò UE, Gran Bretagna e USA sono
coerenti: sin da prima del conflitto, e durante questi due anni, hanno
sempre spento sul nascere qualsivoglia tentativo di trattare, anche quando
lo stesso Zelensky ne sembrava convinto, imponendo l’omicida politica di
guerra a tutti i costi, addestrando all’uopo il burattino di Kiev,
preferendo sacrificare migliaia e migliaia di uomini in divisa e la
popolazione civile alla follia della guerra e alla certezza che Putin
avrebbe ceduto, o che la Russia sarebbe implosa non potendo reggere a lungo
il conflitto e le sanzioni internazionali.
Le cose non sono andate così, e la guerra rischia fra pochi mesi di
trasformarsi in una disfatta per Kiev, a corto di munizioni e di consenso,
reduce dal fallimento della strombazzata controffensiva dei mesi scorsi. Ma
a Bruxelles questo non si vuole ammettere, si alza il tiro e si punta al
riarmo generalizzato dell’Unione, alla prospettiva di un’economia di
guerra, il che vorrà dire (come già è) ulteriori tagli al welfare per
incrementare la produzione militare al fine di attrezzarsi per la guerra
vera. Da tempo un interventismo così sfacciato non si vedeva: un miliardo e
mezzo in più per la difesa comune dell’UE, uso degli eurobond e degli
extraprofitti derivanti dai beni russi sequestrati, riadattare la funzione
della Banca Europea per gli Investimenti dalle infrastrutture alla
sicurezza e alla difesa.
La risoluzione del Parlamento Europeo istiga a combattere “fino alla
vittoria”, anche a costo di inviare truppe di terra, come ha già annunciato
Macron e come la stessa Meloni si è impegnata a fare nel suo recente
viaggio a Kiev firmando un accordo in tal senso; il Consiglio UE del 20
marzo parla esplicitamente di preparazione e di futura strategia di
prontezza e il suo presidente Michel spara tranquillamente: “se vogliamo la
pace prepariamo la guerra”.
Pertanto l’UE nel 2024 destinerà altri 5 miliardi di aiuti all’Ucraina
tramite il fondo denominato “Strumento europeo per la pace”! La Francia sta
addestrando il 126° reggimento per intervenire nel conflitto; in Germania,
Francia e Italia si studiano modelli ibridi di leva militare, perché quella
in Donbass è una guerra di trincea, non solo tecnologica, e occorre carne
da macello da mandare in mezzo al fango a scavare e morire. Polonia, Gran
Bretagna e Francia hanno già addestratori e assistenti sul campo, personale
NATO che dirige l’uso di armi sofisticate i cui segreti non possono essere
messi in mano agli inaffidabili militari ucraini.
Si aggiunga che la Polonia stanzia 27 milioni per costruire o ripristinare
bunker alla frontiera; che i militari tedeschi vanno a preparare la
gioventù a un’eventuale conflitto, recandosi nelle scuole; che la Danimarca
istituzionalizza la leva militare femminile a partire dal 2026; che la
Svezia ha già ripristinato una forma di leva militare semi-obbligatoria; e
soprattutto gli impegni ad inviare entro l’estate in Ucraina i primi
cacciabombardieri F-16 e missili a lunga gittata, “per evitare la
sconfitta”. E la NATO che potenzia la sua base aerea a Costanza, sul Mar
Nero: 3000 ettari, un perimetro di 10 km, 10.000 soldati schierati al
confine con la Russia mentre Stoltenberg parla di ingresso inevitabile
dell’Ucraina nella NATO.
E l’Italia? Come gli altri paesi dell’Unione, ha svuotato i suoi depositi
ed ha urgente bisogno di una politica di riarmo e del denaro per attuarla.
Ricordiamo che in questi due anni di guerra ha speso per l’Ucraina, tra
aiuti umanitari e militari, l’enorme cifra di 5,4 miliardi di euro, che
puta caso corrisponde a quanto tagliato al Reddito di Cittadinanza, a
dimostrazione di come le connessioni tra politiche di guerra e sociali
siano strettissime. Darà all’Ucraina un altro miliardo entro il 2027. Nel
solo 2023 gli ha venduto armi per 417 milioni, fra cui agenti chimici,
tossici e radioattivi. In testa Leonardo, Rheinmetall, RWM, Iveco, Avio
seguite da tante altre.
L’Occidente ha speso per questa guerra la bellezza di 108 miliardi, di cui
42 gli USA e 52 l’UE; solo che gli USA si stan rifacendo sostituendosi alla
Russia come fornitore di gas liquefatto e in altri ambiti commerciali.
Enfatizzando il pericolo russo si mettono le mani nei magri portafogli dei
cittadini, spostando ingenti cifre dalle politiche per il welfare a quelle
militari, nascondendo la realtà dei tantissimi renitenti e disertori che,
in Ucraina come in Russia, cercando si sottrarsi alla carneficina decisa
dai criminali che li governano. Tacciono dei 300.000 uomini in fuga
dall’Ucraina, una storia che metterebbe in risalto la follia di questa
(come di tutte le guerre), e della diserzione di massa, oggi la sola vita
per depotenziare e svuotare di senso i conflitti.
A fronte del tanto s-parlare di pace riguardo alla situazione tragica a
Gaza e al genocidio in atto, il governo italiano nel solo mese di dicembre
ha venduto ad Israele armi per 1,3 miliardi, triplicando gli sporchi affari
rispetto a un anno prima; nei primi tre mesi di conflitto l’industria
bellica tricolore ha passato ad Israele 2,1 miliardi in armi e munizioni
(dalla Fiocchi alla Beretta, all’Alenia Aermacchi, di proprietà di
Leonardo, che ha venduto 30 aerei addestratori militari M-346 con cui
Israele addestra i piloti che bombardano Gaza). Un governo con le mani
sporche del sangue dei civili palestinesi massacrati, impegnato in una
politica estera con la complicità delle opposizioni. Del resto gli affari
del comparto militare italiano, ben rappresentato nel governo, vanno a
gonfie vele: l’export tra il 2019 e il 2023 è aumentato dell’86%; il 71%
delle armi italiane finisce a stati (dittature) del Medio Oriente,
utilizzato contro chi osa sfidare l’ordine petroliero e militare imperante.
Al primo posto di questo export di morte troviamo l’Egitto, che continua a
farsi beffe dell’Italia sul caso Regeni.
Per governare questa situazione anche il fronte interno va tacitato:
decreti sicurezza, carcere per i migranti, manganellate per gli studenti,
arresti per l’opposizione radicale, linea dura nei processi, precettazioni
per chi sciopera, militari nelle scuole.
Bisogna riuscire da avere la capacità di rispondere colpo su colpo, di
sostenere i disertori russi e ucraini e promuovere questa scelta come la
più coerente di sempre per opporsi alla guerra; bisogna rafforzare le lotte
contro la basi militari, le industria belliche, i progetti di potenziamento
delle strutture di guerra sia italiane che della NATO e degli USA. E
soprattutto bisogna far circolare la parola d’ordine dello sciopero
generale contro la guerra, come forma di lotta immediata e internazionale
da adottare quando le sirene degli assassini in divisa cominceranno a
suonare. Perché la guerra va osteggiata, va sabotata, va boicottata.

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LA GRANDE RAPINA AL SUD

Autonomia differenziata. Ricchi contro

Non fidandoci della classe politica e del nostro bel governo regionale di centro destra guidato dallo Schifoso non riponevamo fiducia alcuna sulle modalità con cui costoro avrebbero utilizzato le somme del Fondo di sviluppo e coesione destinati alla Sicilia (assieme alla Calabria 1600 milioni complessivi) e scippati dal governo dei loro consimili di Roma per stornarli nel pozzo senza fondo del Ponte sullo Stretto ( e pertanto alle imprese del nord). Il Fondo Coesione, infatti, alimentato da fondi statali ed europei, dovrebbe avere lo scopo di attuare politiche per lo sviluppo della coesione economica, sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e sociali all’interno dell’Unione Europea. Ma i marpioni del governo hanno pensato bene di dirottarli verso un’opera tutto fumo e niente arrosto, cioè spartirseli tra gli amici degli appalti e subappalti per le opere terrestri del fantomatico ponte, vendendo questo come l’elemento di “coesione e sviluppo” tanto atteso dal Sud. Anche i fondi di altre regioni meridionali sono finiti al Nord, destinati al piano “transizione 5.0” che elargisce sussidi alle imprese (quasi tutte ubicate al settentrione) grazie all’interessamento dei ministri del centro-destra, ribaltando quella percentuale che destinava al Nord solo il 20%.
Se è per questo, non ci fidiamo neanche del termine “sviluppo”, che ha solo significato acuire il sottosviluppo e la marginalità territoriale del Mezzogiorno e far sviluppare i capitali di imprese nazionali e multinazionali e convogliare risorse meridionali verso le regioni ricche del Centro Nord.
Questo non è che un solo aspetto, e neanche il più truce, di quel che significa l’autonomia differenziata per le regioni meridionali, e per la Sicilia che vanta già un’autonomia costruita ad uso e consumo del clientelismo democristiano e politicante e del colonialismo capitalistico settentrionale coi pupi dislocati in loco al suo servizio e ben retribuiti per questo.
L’autonomia dei ricchi è quasi un fatto compiuto; scaturisce da quella “Questione settentrionale” che negli ultimi trent’anni ha surclassato la Questione meridionale, non solo per virtù della Lega Nord, ma anche per l’ignavia della sinistra che ha rincorso i leghisti sul loro terreno, svendendo e cedendo i diritti di un Sud sempre più distante. Basti citare la riforma Bassanini del 1999 sul federalismo amministrativo, che blindava le diseguaglianze tra aree del Paese. E non è un caso se l’accozzaglia dei “governatori” nordisti schierati per l’autonomia differenziata ha visto in prima fila anche elementi come l’emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini, oggi numero due del PD.
Il Sud e la Sicilia ne usciranno con le ossa rotte in tutti i principali settori in cui già vantano record negativi assoluti e incolmabili: sanità, servizi sociali, infrastrutture e trasporti (la Sicilia ha 472 corse di treni giornalieri contro i 2.173 della Lombardia), istruzione, lavoro (in Sicilia solo il 30% delle donne ha un’occupazione riconosciuta, contro una media del Nord Italia che è di circa il doppio).

Ci hanno detto che parallelamente verranno attuati i LEP (Livelli essenziali di prestazione) per quantificare le reali necessità in ambito sociale dei territori, e qualcuno, tra i progressisti, li ha barattati come la condizione per il via libera all’autonomia differenziata. Ma di quali livelli essenziali siamo parlando se non c’è stato un provvedimento, dicasi uno, che abbia influito sullo spopolamento delle regioni meridionali e sull’emigrazione, soprattutto giovanile; sulla deindustrializzazione (che sarebbe dovuta essere sostituita da bonifiche e riconversioni); sul disastro della sanità, accumulatosi negli anni e oramai irrecuperabile; sulla corruzione del sistema politico-amministrativo. Per non parlare delle scellerate scelte di fare del Mezzogiorno e della Sicilia in particolare l’hub energetico internazionale, ovvero la discarica delle multinazionali del fossile e delle cosiddette rinnovabili. E potremmo continuare, anche parlando delle ZES (Zone Economiche Speciali), mai decollate, o appena in procinto di farlo in pochissime realtà (si tratta della creazione di ambiti per agevolare lo sviluppo di imprese a particolari condizioni di favore). Ci sarebbero tante cose da dire nel merito, ma per adesso ci limitiamo a constatare come il governo Meloni abbia appena modificato le ZES decentrate costituendo una ZES unica per tutto il Mezzogiorno, compiendo un atto di mera centralizzazione politica sotto l’egida della presidenza del consiglio, finalizzato al controllo dell’elargizione di fondi nei vari territori. Un atto coerente con la vocazione totalitaria della coalizione fascio-leghista, nonché da leggere in un’ottica clientelare.
Dovremmo rubare le parole ad un comico (siciliano) come Fiorello, che nel commentare l’autonomia differenziata, ha aggiunto: “differenziata? quindi la Sicilia la gettiamo nell’umido”. Perché nella spazzatura più maleodorante finiranno le regioni differenziate, cioè discriminate, trattate differentemente, ovvero nel solco secolare del colonialismo tricolore.

Torniamo a dirlo: non ci fidiamo della classe politica e non lo faremo mai; questa gente non fa parte del nostro campo. Di recente il Movimento Trinacria ha criticato il Ministro Nello Musumeci perché ha negato al governatore dell’isola Schifoso lo stato di emergenza nazionale per gli incendi della scorsa estate, che hanno causato ingenti danni e anche morti (ma a fine mese il governo ha concesso un risicato contributo di 6 milioni sui 300 richiesti, suscitando la soddisfazione sia di Musumeci che dello Schifoso); i ragazzi di Trinacria hanno definito Musumeci non un vero siciliano, ma un traditore. Ecco qua l’errore anche ideologico che si fa: quando un politico viene definito traditore si lascia intendere che prima di quel momento o di quell’atto in lui erano riposte speranze ed attese; cioè era considerato “dei nostri”, ma poi ha tradito. Perché chi tradisce prima è stato dalla tua parte. Noi la pensiamo diversamente: Musumeci, Schifani lo Schifoso e tutti i loro compari non sono traditori, perché sono sempre stati nel campo avverso, dalla parte dei potenti e dei succhiasangue, e nel nostro progetto di cambiamento non c’è mai stato né mai ci sarà un briciolo di spazio per questa gentaglia, per la classe dei pre-potenti, dei mafiosi, dei ricchi. Anche se sono nati e vissuti in Sicilia, non sono siciliani, ma nemici eterni del popolo siciliano, che è composto da chi vive in questa terra, anche se vi è arrivato solo ieri; da chi in questa terra suda e fatica; da chi la ama e la desidera libera da basi militari, industrie tossiche, ipoteche energetiche, mafie e colonialismi. Questo è il nostro campo, quello che deve difendere, oggi e subito, questa terra dai nuovi assalti del colonialismo di sempre.

Pippo Gurrieri

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Europa-guerra: avanti tutta!

La ricorrenza, il 24 febbraio scorso, dei due anni dallo scoppio della guerra russo-ucraino è stata l’occasione per immettere in circolo ulteriori abbondanti dosi di militarismo guerrafondaio. Non ha fatto mancare il suo contributo l’ineffabile presidente del consiglio Meloni che in qualità di presidente di turno del G7 è volata a Kiev per manifestare il suo sostegno convinto alla guerra in corso e per firmare un accordo bilaterale con l’Ucraina, simile a quelli già sottoscritti da Francia, Gran Bretagna e Germania, su cooperazione industriale, scambi di intelligence, sostegno alle riforme. La Nostra si è pure esibita in una di quelle dichiarazioni roboanti intrise di pathos: “Questa terra è un pezzo della nostra casa e noi faremo la nostra parte per difenderla”, ha detto rivolta ad un Zelensky sempre più avido di armamenti. E’ stata comunque una settimana in cui cariche istituzionali e governative europee si sono sprecate in dichiarazioni sul piede di guerra che prese alla lettera sarebbero da avventurieri da quattro soldi o da criminali. Tra queste spiccano quelle del presidente francese Macron che ha detto di non potere escludere l’invio di militari in Ucraina e quelle della von der Leyen che davanti al Parlamento europeo riunito in plenaria ha dichiarato: “Dobbiamo potenziare molto velocemente la nostra capacità industriale di difesa nei prossimi cinque anni”. Insomma per costoro siamo oramai entrati in un’economia di guerra.

Un’Europa divisa nella sostanza su tutto sembra qui marciare compatta e determinata in un’unica direzione: il riarmo e la preparazione di un clima prebellico. La guerra apertasi nel 2022 in Ucraina, è vero, ha segnato una svolta nelle guerre che si sono combattute negli ultimi trent’anni. Lo scontro, ancorché negato ufficialmente e realizzato per interposta persona, è in questo caso più direttamente tra potenze egemoni e rappresenta uno dei tasselli rilevanti nella ridefinizione delle relazioni geopolitiche future, in questo travagliato inizio di ventunesimo secolo. Tuttavia la pervicacia con la quale si minimizzano le guerre precedenti o addirittura si nega che l’Europa sia stata coinvolta in guerre dopo la fine della seconda carneficina mondiale, quando le guerre che sconvolsero la ex Iugoslavia negli anni Novanta erano già allora un monito per un’Europa che si prestava a fare da pedina nello scacchiere dello scontro mondiale, appare sospetto. E infatti è utile a far passare la narrazione di un pericolo estremo che occorre a tutti i costi fronteggiare con l’unico mezzo che ci è rimasto: la guerra. E invero, secondo questa rappresentazione, il nemico oggi è l’incarnazione dell’alterità assoluta rispetto a quei valori di cui l’Occidente si ammanta: libertà e democrazia. Nulla importa se tutto ciò è una costruzione ad hoc per orientare un’opinione pubblica sballottata di qua e di là in un mondo sempre più incerto e minaccioso. Una costruzione cui allegramente partecipano congiuntamente tutte le forze politiche e gli orientamenti culturali, salvo poche eccezioni.

Per rimanere al dibattito pubblico italiano come altrimenti interpretare posizioni quale quella della rivista Limes, il cui ultimo numero in edicola titola Stiamo perdendo la guerra, se non come propaganda di guerra. E’ vero, nell’editoriale che introduce il numero il suo direttore, presumibilmente, si prodiga in una raffinata analisi degli attuali equilibri mondiali, del ruolo che l’Italia vi ricopre e di quello che potrebbe ricoprirvi, ma infine come unica alternativa positiva, se si riuscirà ad evitare di precipitare dall’attuale “Guerra Grande” ad una aperta terza guerra mondiale, viene prospettata una pace armata a fare da deterrente, una sorta di nuova edizione della guerra fredda, dove l’Italia in questo caso dovrebbe avere un ruolo se non da protagonista da comprimaria. Eccoci così apparecchiato il nostro roseo futuro prossimo: “Guarda caso le aree critiche in cui avremmo maggior bisogno di limitato supporto e aperta benedizione americana appartengono alla classe di quelle che Washington non vuole evacuare ma di cui non può/vuole sostenere i costi. Dai Balcani inclusa Ucraina fino al Mediterraneo centrale (Stretto di Sicilia) e orientale, dal Nordafrica al Sahel. Sul piatto dovremmo mettere importanti risorse economiche, diplomatiche e militari. In cambio Washington dovrebbe offrire sostegno logistico e di intelligence, ma soprattutto esplicito appoggio all’impegno italiano, contro eventuali sabotaggi di «amici e alleati»”. Insomma siamo ancora all’antico adagio se vuoi la pace prepara la guerra, contrabbandato come lucido realismo e sano buonsenso da sacerdoti in atto sacrificale.

Di fronte ad una così massiccia propaganda e ad un intruppamento che coinvolge ampi strati della società, seppure passivamente, quali azioni intraprendere per contrastarli, quali strumenti rimangono a chi vuole opporsi alla deriva guerrafondaia? Forse non molto, eppure non ci si può fare annichilire da questo militarismo pervadente. Se ad oggi un movimento pacifista consapevole, che al momento non c’è, non ha una propria strategia efficace per contrastare le guerre, tuttavia dovrebbe riprendere a riflettere su alcune questioni dirimenti. Innanzitutto il rifiuto della guerra non può essere disgiunto da quello delle armi e degli eserciti. Qualsiasi posizione che si reputi contraria alla guerra senza metterne in discussione i suoi principali strumenti è solo autoinganno o complicità. Ancora, il ripudio della guerra deve essere una volta per tutte sottratto allo stanco esercizio retorico di richiamarsi al fantomatico articolo 11 della Costituzione. Una visione che pensa la guerra come abominio dovrebbe essere capace di prospettare una trasformazione radicale delle attuali strutture sociali che imprigionano energie e libertà e le piegano ai loro interessi. Altrimenti quale forza può opporre una gioventù ad un sistema che la induce alla scelta militarista? Non gli resta che abbandonarsi al “destino” e da qui il passo è breve per diventare manganellatore e, chissà, carnefice.

La storia che probabilmente non è maestra di vita altrimenti avrebbero ragione i sostenitori della sua fine, però potrebbe suggerirci che dovremmo sempre operare per lo scarto, per uscire dai binari in cui le forze del sistema ci costringono.

Come scrive Vasilij Grossman nel suo magistrale Vita e destino le forze delle potenze, degli stati e dei governi sono soverchianti ma vi è sempre una scelta che il singolo compie e su questa scelta occorre far leva, che diventi una scelta sempre più comune e contagiante di rigetto della guerra come delle istituzioni che la progettano, la sostengono e la mettono in atto.

Angelo Barberi

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Depredare gli africani a casa loro

Colonialismo Made in Italy. Il piano MelEni

Ci hanno scassato le orecchie per più di un anno con ‘sto piano Mattei. Ci hanno ripetuto in tutte le salse che dovevamo fidarci, che sarebbe stato un “nuovo modello di cooperazione non predatoria con l’Africa”, come l’ha definito la premier Giorgia Meloni. E noi abbiamo fatto finta di crederci, perché si sa che questa ignobile destra al governo ha davvero a cuore gli interessi del continente con la crescita demografica più tumultuosa del presente e del futuro. Mica sono razzisti e discriminatori, nooooo, i fascisti ripuliti di oggi si sono pure scoperti concilianti e collaborativi.
E invece il vertice Italia-Africa del 28 e 29 gennaio a Roma – come se si potessero sintetizzare in un’unica voce 54 stati differenti e, soprattutto, centinaia di popolazioni con culture e storie differenti – si è rivelato per quel che era facile prevedere, cioè un mezzo flop. Tutto qui ‘sto piano Mattei? È quel che si sono chiesti tanti analisti. Appena 5,5 miliardi di euro, tra l’altro soldi sottratti da altre finalità mica da poco come l’adattamento al collasso climatico, e manco uno straccio di programma vero e proprio, se non un elenco parziale di progetti già esistenti sulla cooperazione, coi ministeri dell’Ambiente e degli Affari Esteri che hanno palesato il proprio malumore per l’accentramento deciso da Palazzo Chigi.
Già nei giorni precedenti al vertice 80 organizzazioni della società civile africana avevano presentato una serie di richieste al governo italiano, tra le quali una maggiore trasparenza e una reale inclusione di chi vive in Africa. “Il piano Mattei è un simbolo delle ambizioni italiane in materia di combustibili fossili, un piano pericoloso e un’ambizione miope che minaccia di trasformare l’Africa in un mero condotto energetico per l’Europa” ha dichiarato Bean Bhekumuzi Bhebhe, responsabile delle campagne di Don’t Gas Africa. Parole con le quali viene individuato il reale senso del piano Mattei, vale a dire il solito accaparramento di risorse africane da parte dell’Italia. L’intitolazione al fondatore dell’Eni non arriva a caso.
Per la destra arraffona e securitaria si può tranquillamente tralasciare l’impegno partigiano di Enrico Mattei, che militò nelle formazioni democristiane e che proprio per questo motivo fu messo a capo dell’allora Agip (doveva essere un semplice commissario liquidatore per consentire a Usa e Gran Bretagna di papparsi il petrolio e il gas italiano e invece rilanciò l’azienda statale trasformandola nel cane a sei zampe che conosciamo), mentre il suo colonialismo dal volto umano viene preso come riferimento patriottico, dimenticando che la scelta di puntare sull’Africa (e sul Medioriente) fu perseguita da Mattei per una pura strategia aziendale di posizionamento: dato che le cosiddette “sette sorelle”, cioè le altre multinazionali petrolifere, erano troppo forti in determinati mercati, Eni scelse di concedere agli stati più deboli e ricchi di risorse condizioni di gran lunga migliori rispetto alle concorrenti. Ma sempre in un’ottica capitalistica di sfruttamento. Che è la stessa mira del governo Meloni, intenzionato a riempire il vuoto della Francia che, dopo secoli di oppressione, sta dismettendo la sua politica nota col termine Françafrique, cioè il controllo economico e politico delle sue ex colonie africane e delle molte regioni francofone del continente.
Siccome i veri messaggi vanno dati a chi ci mette i soldi, è stato il ministro Crosetto a rivelare questa intenzione nel corso di un evento riservato, organizzato dalla società di consulenza Ernst & Young e con una folta platea di imprenditori e manager. “Noi siamo il paese meglio accettato nelle nazioni dove siamo stati colonizzatori” ha detto uno dei leader di Fratelli d’Italia, sciorinando per l’ennesima volta la storiella degli italiani brava gente che col piano Mattei diventa un obiettivo politico. Da parte nostra, quella militante, non dobbiamo fare lo sciocco errore di sopravvalutare o alterare le intenzioni del governo. Lo scopo non è quello di contenere i flussi migratori portando lo sviluppo in Africa, come ho letto da qualche parte, né tantomeno Meloni aspira a diventare la statista che vuole risolvere i problemi dell’Africa intera. Anche perché l’Italia comunque gioca un ruolo insignificante rispetto a potenze come Russia e Cina, che nel frattempo hanno enormemente espanso la loro presenza nel continente. Semplicemente lo stato italiano vuole continuare a garantirsi i profitti che gli consentono le partecipazioni azionarie dentro colossi come Eni ed Enel.
Al di là della fuffa politicante, infatti, sono altre le parole che bisogna sapere ascoltare. Come quelle pronunciate da Claudio Descalzi, l’amministratore delegato di Eni, alla trasmissione Rai condotta da Bruno Vespa. Una prima annotazione è che lo pseudo-confronto tra i due è avvenuto proprio il 29 gennaio, appena terminato il vertice Italia-Africa organizzato dal governo. “Loro hanno tantissima energia, tantissimo territorio, noi non abbiamo energia ma abbiamo un grande mercato” è stato il messaggio di Descalzi. Più chiaro di così…

Di fronte a tale disegno va rigettato in toto l’intento riformista di provare a migliorare il Piano Mattei. Non soltanto perché è il progetto sul quale si fonda l’idea folle e antistorica dell’Italia come hub del gas, non soltanto perché sminuisce il settore della cooperazione, non soltanto perché nella sua prima stesura l’Africa non è stata manco consultata (come ha affermato al Senato il presidente dell’Unione africana, quello vero e non quello interpretato in uno storico scherzo ai danni di Meloni da due comici russi qualche mese fa) ma perché è appena un’altra gabbia, neppure dorata. Al netto delle alleanze e delle collaborazioni che dobbiamo consolidare e avviare con chi vive in Africa, è qui che dobbiamo scalfire il predominio dei “nostri” colossi energetici. La lotta alle multinazionali è da sempre anche una lotta antistatalista. 

Andrea Turco

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I NOSTRI PROPOSITI PER IL 2024

Il 2024 si presenta carico d’incognite. All’orizzonte nuove guerre e nuovi tentativi di coinvolgervi il nostro paese, la barbarie che ovunque avanza e miete vittime, l’utopia capitalista che supera le sue crisi grazie ai ritrovati della tecnologia digitale, l’umanità che, minacciata dal clima impazzito, dalle pandemie e dalle macchine intelligenti, scivola sempre più spedita verso l’estinzione.
In questo scenario deprimente quale funzione può ancora rivestire questo piccolo e forse un po’ antiquato giornale che avete tra le mani? Come può contribuire a invertire una tendenza all’illibertà che sembra consolidarsi ogni giorno che passa? Quale alternativa può ancora rappresentare alla disinformazione di regime e all’omologazione culturale?
Sulla soglia dei suoi 48 anni – età veneranda per un giornale e non solo anarchico – “Sicilia Libertaria” sente la necessità d’interrogarsi e interrogare collaboratori, lettori e simpatizzanti sul suo presente e soprattutto sul suo prossimo futuro. Una riflessione in tal senso si rivela tanto più necessaria quanto più latita nel movimento anarchico e tra i suoi organi di stampa.
”Sicilia Libertaria” ha sempre evitato di trasformarsi in mero giornale di opinione o, ancor peggio, in un prodotto politico-culturale da consumare un tanto al mese. Ha privilegiato il suo essere un organo di agitazione, di lotta e di proposta anarchica. Risulta però difficile mantenere oggi tale caratteristica se le posizioni di chi vi scrive, specialmente quando affrontano questioni nuove o controverse (come sovente avviene negli “speciali”), e addirittura quando emergono proposte d’intervento strategico, non vengono minimamente recepite, ancor meno dibattute all’interno del nostro stesso movimento, e quasi mai assumono un carattere operativo. Un giornale anarchico, se si presuppone tale, dovrebbe favorire la più ampia circolazione di idee, costituire una palestra di confronto e anche di scontro (pur nel reciproco rispetto) tra compagni, discutere delle novità nel nostro campo e nella società, scoprire o riscoprire modalità di lotta e saperi alternativi, sostenere ogni aspirazione alla libertà e al cambiamento dal basso. Non certo finire col tempo per atrofizzarsi in formule stantie o ripetitive e delegate a pochi e anziani scrittori.
Per fare ciò non basta l’impegno costante di chi fa uscire periodicamente il giornale: è indispensabile il contributo del più gran numero di compagni e lettori. Anziché utilizzare uno strumento che è a portata di mano, aggiornarlo e perfezionarlo anche tecnologicamente e nei contenuti, molti di loro preferiscono trastullarsi invece con i media pensati dai tecnocrati del digitale per annichilirne la capacità di riflessione e di discernimento critico. Alcuni si rifugiano nell’indifferentismo, nel disimpegno, nell’apatia: per costoro il giornale rappresenta semplicemente un alibi per sentirsi o continuare a sentirsi vivi. Altri ancora, pochi per fortuna, snobbano il lavoro dei compagni “giornalisti” dall’alto di una presunta superiorità intellettuale che però quasi mai pongono al servizio dei bisogni del movimento o traducono in progetti d’intervento politico e sociale ampi, comunitari e partecipati.
Il movimento anarchico, nel suo complesso, ospita numerosi militanti di valore e con competenze acquisite nei più svariati ambiti del sociale. Possibile che nessuno, o pochi di essi (a parte i like che di tanto in tanto ci inviano), riesca a esprimersi sulle sollecitazioni – talvolta delle vere provocazioni – che provengono dal nostro giornale? Che si tengano strette le loro competenze, ad esempio, solo per fare carriera nelle università, nelle istituzioni o nelle imprese?
Sono purtroppo in tanti coloro che si dicono anarchici e vanno dimenticando come l’intimo legame tra pensiero e azione, tra idea e progetto, tra fine e mezzo (nel nostro caso il giornale) costituisce una prerogativa fondamentale dell’anarchismo. Non è possibile concepire un giornalismo anarchico slegato dalla realtà, dalla società, dai territori e dalle lotte che vi si sviluppano. 

In passato, e in parte ancora oggi, “Sicilia libertaria” è stata scambiata per un giornale “localistico” semplicemente perché nelle sue analisi preferisce partire o ancorarsi alla concretezza di un territorio d’elezione, la Sicilia. Ma basta scorrerne le pagine per accorgersi che si tratta di un abbaglio: dalla Sicilia libertaria all’internazionalismo anarchico il passo è spesso immediato, come d’altronde avverte il motto sulla testata (“per la liberazione sociale e l’internazionalismo”). Chi contesta a “Si.Lib.” un carattere “localistico” finisce talvolta con l’imputarle anche la colpa di sottrarre risorse e lettori al settimanale nazionale e con l’alimentare una ridicola rivalità tra i due giornali. La polemica è antica (risale alla nascita di “Umanità Nova”, nel 1920) ma la ricerca storica l’ha da tempo sfatata dimostrando che, al contrario, il moltiplicarsi di giornali, stimolando l’attività dei gruppi locali, giova piuttosto alla diffusione del settimanale nazionale. Il problema è piuttosto un altro. È l’esistenza di compartimenti stagni tra i diversi giornali anarchici, dove lo scambio reciproco di temi, collaboratori e attività – che dovrebbe essere la regola – è divenuto residuale. Anziché alimentare un circuito virtuoso e solidale si può persino assistere a chiusure stupide e non addirittura a incomprensibili contese sulle virgole.
In un mondo che è sempre più ferocemente antianarchico, i nostri giornali, veri polmoni di libertà, non dovrebbero più ignorarsi o pestarsi i piedi a vicenda. Se non riescono più, come un tempo, a “fare fermentare gli spiriti” o a creare intorno agli anarchici una opinione pubblica simpatizzante, possono tornare tuttavia a rivestire una funzione indispensabile, quella di luogo privilegiato dove sviluppare analisi critiche e controcorrente, elaborazioni progettuali e scambio di relazioni solidali in un movimento che, per resistere e rinnovarsi, deve innanzitutto rigettare a partire da sé la deriva autoritaria e il conformismo dilagante. 

É questa, forse, una prima parziale risposta ai quesiti iniziali. Alla quale speriamo se ne aggiungano numerose altre nell’anno in corso.

Natale Musarra

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ZERO Capitalismo

Clima e carnevalate. Il mondo post-Cop
Ci sono campi, settori, ambiti dove è più evidente la distanza siderale tra i desideri di chi partecipa e la realtà delle forze in gioco. Uno di questi è il clima. E la prova più evidente è nelle Cop, le conferenze sui cambiamenti climatici che si organizzano ogni anno in maniera itinerante – ogni volta in uno stato diverso, come fosse un premio – sotto l’egida dell’Onu. Nel periodo compreso tra novembre e dicembre la copertura mediatica della Cop28 di Dubai è stata notevole, confermando l’attenzione crescente che la mobilitazione ecologista degli ultimi anni è riuscita a ottenere. Ma le buone notizie terminano qui. Perché è impossibile non solo appassionarsi ma anche solo riuscire a tradurre per le persone non addette ai lavori il dibattito presunto tecnicistico che emerge da questi incontri che si fanno via via sempre più mastodontici – almeno 100mila persone sono volate negli Emirati Arabi Uniti e per molte di queste la conferenza ha significato soltanto un’opera di posizionamento. Davvero possiamo esultare perché alla Cop28 di Dubai, per la prima volta dal protocollo di Kyoto del 1992, sono stati citati i combustibili fossili nella dichiarazione finale (e tra l’altro solo con questa formula vaga, senza menzionare né il petrolio né il gas)? Davvero possiamo esultare perché gli stati hanno promesso un processo di “transizione dalle fonti fossili”, qualunque cosa significhi, senza indicare tempi e modalità, in ritardo di almeno 30 anni dalle richieste, dalle sensibilità e dalle necessità?
Bastano una manciata di dati per rovesciare tutte le aspettative e le narrazioni attorno a queste conferenze. Tra il 1992, e il 2022 sono state prodotte più emissioni di gas serra di quante non ne siano state emesse tra il 1750 e il 1990, come a dire che da quando esiste una politica mondiale di contrasto al riscaldamento globale il tasso di emissioni è aumentato. Le Cop dovevano risolvere un danno e invece l’hanno ingrandito. Quello che è cambiato è il centro di produzione di tali emissioni, con gli Stati Uniti che sono rimasti pressoché costanti, la Cina che ha soppiantato l’Europa e la diversa geografia dei cosiddetti petrostati, la cui economia cioè si basa principalmente sullo sfruttamento degli idrocarburi, che sono passati da quelli latinoamericani a quelli mediorientali.
Prima ci accorgeremo che il “governo globale del clima” ha fallito, semplicemente perché affidarsi ai governi non ha mai portato a niente di buono, prima riusciremo a costruire un’alternativa. Come osserva il ricercatore Emanuele Profumi, l’inganno maggiore delle Cop risiede nel fatto che “benché il riscaldamento globale sia da considerarsi un caso tipico di fallimento del mercato (a causa dell’incapacità di contabilizzare correttamente le esternalità negative, vale a dire le emissioni in eccesso), esso sia risolvibile solo attraverso la creazione di nuovi mercati in grado di dare un prezzo alla natura”. Di più: grazie anche alle politiche della Cop le emissioni sono considerate da aziende e stati non più come un problema di inquinamento da risolvere, neppure una mera conseguenza della produzione industriale ma un prodotto, una merce. Ancora una volta, dunque, il regime capitalistico metabolizza le crisi e fa diventare occasione di profitto pure i suoi effetti deleteri. Non a caso anche i governi e le aziende hanno preso a cianciare di green economy, imboccati in questo senso pure da alcune associazioni ambientaliste per le quali l’unico modo di contrastare il capitalismo “cattivo” di carbone, petrolio e gas è crearne un altro, identico nei modi e nella forma ma senza le emissioni, che definiscono “verde” e dunque implicitamente buono. Ecco, se è questo il modello per cui tifare alla prossima Cop, allora si fa prima a organizzare una contro-Cop e a immaginare a un mondo post-Cop, dove nessuna persona senta più la necessità di delegare i propri destini a delegazioni nazionali che alle conferenze sui cambiamenti climatici hanno il compito di riempire l’agenda di ministri e sottosegretari: è ciò che è emerso da alcune confidenze della truppa italiana, che dal ministro Fratin alla viceministra Gava pareva proprio un’armata Brancaleone, tra slogan nazionalistici a caso (il piano Mattei pure per dare da mangiare all’Africa intera!) e messaggi di ringraziamenti a Eni per aver inserito le energie più care al cane a sei zampe (cattura e stoccaggio di carbonio e biocarburanti). D’altra parte c’è un’informazione che ha deciso di attivarsi, e meno male. Ma lo fa sempre nell’alveo di una visione cieca e meschina di un progressismo liberale per il quale le Cop sono comunque un momento di democrazia, l’unico luogo dove i “Paesi vulnerabili”, come li definiscono loro, hanno voce in capitolo. Rovesciando come al solito la realtà. Un solo esempio in questo senso: al momento della decisione finale il presidente della Cop28 Sultan Al Jaber ha prima fatto votare la bozza del documento finale, senza preoccuparsi delle assenze proprio dei “Paesi vulnerabili”, e ha poi aperto la discussione, con i rappresentanti dei “Paesi vulnerabili” che infatti hanno protestato per il sopruso. Solo che ai giornalisti presenti a Dubai ciò non è interessato perché non era funzionale al racconto che propinano da anni sulle Cop come unico, benché imperfetto, strumento di democrazia climatica. Sono le stesse persone, per intenderci, che continuano a giustificare l’ignobile presenza alle Cop delle aziende fossili – a Dubai c’erano oltre 2mila delegati di aziende come Eni, Shell, Q8 e così via – perché “ehi, anche con loro bisogna dialogare”. Cioè questi se potessero si metterebbero a dialogare pure coi militari: ai quali, figurarsi, manco viene chiesto di conteggiare le proprie emissioni. Qui non si tratta di comprendere perché “qualcosa è andato storto nonostante le buone intenzioni”, come ho letto da qualche parte, ma di assumere che da lì, dalle Cop, semplicemente non può mai venire niente di buono. Lo hanno capito le attiviste e gli attivisti di Earth Social Conference, il controvertice della Cop che si è tenuto in Colombia dal 5 al 10 dicembre, organizzato dai movimenti per la giustizia climatica. In un’intervista rilasciata prima dell’inizio della Cop28, Karim, un’attivista di Earth Social Conference, aveva predetto come sarebbe andata: “finirà con un accordo non vincolante, verrà stipulato dietro le quinte e si cercherà di uscire dal vertice con la percezione di non aver fallito completamente. L’accordo non comporterà alcuna deviazione significativa dal business as usual. A consolarci saranno le speranze della Cop29 del prossimo anno. E il mondo resterà sull’autostrada verso l’inferno climatico con i piedi ben saldi sull’acceleratore”. Karim e le persone come lei non hanno doti divinatorie, semplicemente hanno smesso di far passare per realtà i propri desideri. Va invece raccolto l’invito a creare sin da ora una rete internazionale che vada oltre le velleità governative e cominci a creare un mondo post-Cop, dove al posto dei governi e delle loro delegazioni fantoccio, al posto di chi ha creato il danno e promette di avere la cura, ci sia chi vuole costruire un altro mondo. In fondo zero emissioni vuol dire zero capitalismo.

Andrea Turco

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Siamo tutti palestinesi

Da tre mesi va avanti lo sterminio della popolazione palestinese, sotto gli occhi del Mondo intero; sembra ormai chiaro che lo Stato di Israele voglia sbarazzarsi di un popolo che in oltre 70 anni di occupazione dei propri territori, non si è mai arreso, pur essendo costretto a vivere in condizioni di estrema umiliazione, repressione, segregazione, sottomissione e violenza. Da Gaza i bombardamenti si sono allargati alla Cisgiordania, dove si affiancano all’azione quotidiana dei coloni, improntata ad un razzismo di fondo e da metodi e idee fasciste.
A questo punto Hamas non c’entra più nulla; è stato solo un pretesto – oltre tutto coltivato, finanziato, difeso e sostenuto anche dal governo israeliano per tenere divisi i palestinesi e giustificare le proprie politiche espansioniste. Siamo passati da un regime di apartheid, all’espulsione definitiva del popolo di Palestina dalla propria terra.
Le nostre remore e critiche al movimento di Hamas – integralista, patriarcale, autoritario e alla violenza della sua azione del 7 ottobre nei territori occupati oltre il muro della vergogna, rimangono un fatto oggettivo, ma insistere su di esse rischia di prestare il fianco a teorie giustificazioniste della brutale azione militare dell’esercito israeliano, appoggiato direttamente dagli Stati Uniti, armato con sistemi provenienti dalle industrie belliche di mezzo Mondo, fra cui spiccano quelle italiane.
La guerra di Israele contro i palestinesi invece non ha nessuna giustificazione; è il tentativo di portare a compimento le teorie sioniste dell’espansione totale in Palestina, un progetto che non nasce certamente il 7 ottobre 2023, ma che prosegue anche da prima della seconda guerra mondiale, e dopo ha assunto un carattere permanente, coperto strumentalmente dalle vicende della Shoah. E’ l’esempio di quanto le sofferenze di un popolo possano non contare nulla quando uno Stato che di quel popolo si erge a rappresentante nazionale e religioso, fa patire ad un altro popolo sofferenze e violenze. Ed è inutile fare paragoni su quale sia la disgrazia maggiore tra Olocausto e sterminio della popolazione palestinese: quando la follia degli Stati e degli eserciti si impone, non vi è nulla da salvare, nulla da giustificare.
In tre mesi il numero dei civili assassinati nella sola Striscia di Gaza ha raggiunto la cifra di 30.000, di cui oltre 11.000 bambini e 6000 donne; un centinaio i giornalisti uccisi, circa 250 i medici, oltre 150 i dipendenti dalle varie agenzie umanitarie; 70.000 le case distrutte, oltre 180.000 quelle danneggiate; centinaia di scuole rase al suolo, come quasi tutti gli ospedali, 2 milioni i profughi, costretti alla fame, al freddo, alla mancanza di cure e bombardati nei campi di fortuna che li ospitano. Nella Cisgiordania il numero delle vittime si alza di giorno in giorno sotto le bombe dell’esercito; gli abitanti vengono fatti evacuare dai villaggi, le loro case requisite, le coltivazioni distrutte dalle le bande neonaziste dei coloni.
Di fronte a tutto questo ogni atto di resistenza acquista legittimità e sarà così per molto tempo; per quanto i media occidentali continuino a dare il massimo rilievo all’ostaggio morto o al “terrore” per i lanci di razzi da Gaza o dal Sud Libano, dimostrandosi meri strumenti di propaganda israeliana e sionista, c’è un popolo che sta per essere cancellato con l’assassinio di massa premeditato, con la dispersione e la deportazione, e necessita della massima solidarietà. Una solidarietà fatta non solo di parole e di commozione, ma di gesti concreti, aiuti materiali, boicottaggio dell’economia dello Stato di Israele, azioni di lotta nei confronti di tutti i suoi uffici di rappresentanza e dei suoi partners.
L’Onu in tre mesi è rimasto imprigionato nei veti degli Stati Uniti; la sua impotenza lo esclude dai soggetti preposti ad individuare soluzioni politiche alla questione palestinese. I paesi arabi si muovono solo misurando il proprio tornaconto; per essi i palestinesi sono ormai un amico scomodo, nonostante Hamas. Il popolo palestinese è solo, ed è dovere di tutti noi stare al suo fianco, oggi nella resistenza, domani nella costruzione di una società laica, egualitaria e autogovernata, libera dalle ipoteche imperialiste e sioniste e dalle loro proposte interessate e perdenti, come quella di uno Stato palestinese retto da amici di Israele e degli Stati Uniti.

Siamo tutti palestinesi.

Pippo Gurrieri

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R-esistenza!

Palestina. Per una coesistenza senza Stati

La carneficina che ha insanguinato le strade di Gaza nelle scorse settimane, dopo essere stata stoppata dalla tregua raggiunta tra Israele e Hamas, grazie alla mediazione del Qatar e l’avallo statunitense, è ripartita e Israele ha ripreso a bombardare Gaza con la medesima brutalità. Purtroppo siamo di fronte all’ennesima conferma che le sofferenze delle popolazioni nulla contano per gli Stati e i governi. La tregua, o pausa umanitaria come viene spesso definita, è in atto da diversi giorni e ha permesso lo scambio tra alcuni degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas e dei palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, per la gran parte donne e ragazzi. E’ stato comunque un momento di sollievo per gli abitanti di Gaza, che si sono così potuti rifornire, in modo assolutamente insufficiente, di cibo e di ogni altro bene necessario per cercare di sopravvivere al bombardamento che il governo israeliano ha subito intrapreso alla fine della tregua. L’attentato del 30 novembre, alla fermata degli autobus a Gerusalemme ovest, rivendicato da Hamas, dà nuova linfa all’interno di Israele ai fautori della guerra totale e all’obiettivo proclamato fin da subito di annientare Hamas.
Questo ennesimo conflitto israelo-palestinese, una continua scia di sangue dal 1947 ad oggi che ha visto fronteggiarsi in modo asimmetrico uno Stato e un esercito attrezzato con una popolazione a volte armata di sole pietre, segna probabilmente una svolta carica di conseguenze nefaste. Se l’attacco del 7 ottobre di Hamas è stato quanto di più efferato ci si potesse attendere, la reazione del governo sionista si è caricata di una ferocia e di un cinismo senza precedenti: uccidere in preda ad un moto di vendetta, senza risparmiare nessuno, donne, bambine, bambini, anziani, civili, colpevoli soltanto di abitare a Gaza. Dalle macerie di una città semidistrutta è difficile immaginare un qualsiasi futuro non di convivenza ma neppure di distensione; non potranno che nascere nuovi estremismi violenti, nuovi conflitti e nuove stragi. Da una parte, un popolo ridotto in catene, minacciato nella sua stessa esistenza, quale reazione può produrre se non quella di un’ulteriore estremizzazione, di vecchi e nuovi Hamas che solo nello scontro armato, seppure da una situazione di inferiorità, pensano di poter ottenere qualcosa, forse solo il semplice riconoscimento di esistere. Dall’altra, governi sempre più faziosi e irresponsabili che si reputano legittimati a perseguire una vera e propria pulizia etnica.
La Nakba, l’esodo palestinese seguito alla nascita dello Stato di Israele nel 1948, sempre rivendicata dalla destra sionista e negata dallo schieramento politico di centro sinistra israeliano, come sostiene lo storico Ilan Pappé, adesso è apertamente invocata dal governo e da strati sempre più estesi di popolazione. Come uscire da un tale groviglio che si avviluppa sempre più? Al momento prevalgono le contrapposizioni per cui da una parte e dall’altra si invocano torti e diritti: alla Nakba si contrappone il diritto di Israele all’esistenza, al lancio di missili il controllo di Gaza e l’occupazione di nuovi territori, alla minaccia e agli attacchi “terroristici” il regime di apartheid e la repressione, in un crescendo che provoca continue carneficine. Certo questo non significa che la condizione dei palestinesi sia equiparabile a quella degli israeliani. Pare abbastanza ovvio che in questo momento storico nessuno minacci di azzerare lo Stato israeliano; se qualcuno rischia la dispersione sono proprio i palestinesi, e l’azione dell’esercito israeliano a Gaza sembra proprio profilare questa eventualità. Per tacere dell’incessante attività dei coloni ebrei in Cisgiordania che continuano ad occupare territori.
Nel clima fazioso che si è venuto a determinare dopo l’attacco del 7 ottobre una propaganda senza scrupoli ha tirato in ballo la Shoah e l’antisemitismo per giustificare i crimini che l’esercito va commettendo contro una popolazione inerme, sottoposta a bombardamenti indiscriminati. Non è certo questo il modo per uscire dal cul de sac di uno scontro che dura da più di settant’anni. Dovrebbe invece essere avviato un processo che cominci a ridurre le ostilità e gli attriti, capace di “azzerare” un passato nefasto e riprogettare un futuro di reale convivenza pacifica. Ma certamente questo non può avvenire sotto la spinta di istituzioni o Stati. L’impotenza dell’Onu, che dovrebbe per statuto assicurare la convivenza pacifica, proprio in questo frangente è inequivocabile; persino le timide prese di posizione del Segretario generale Guterres sono state o attaccate con acrimonia o bellamente ignorate. Stati Uniti, Cina e Russia e i rispettivi satelliti si muovono nello scacchiere imperialista alla ricerca di sempre nuove influenze e le guerre sono occasione, come per la Russia l’Ucraina, per misurare forze e guadagnare posizioni. Il conflitto in corso in Palestina non fa eccezione: è uno dei tanti teatri del perenne scontro tra imperialismi.
Scontro che al momento opera a distanza e sullo sfondo del conflitto tra Israele e Hamas, poiché passate le prime settimane in cui sembrava che una qualsiasi scintilla potesse far precipitare in una guerra che coinvolgesse tutto il Medio Oriente, questa possibilità adesso pare scongiurata. Tuttavia il quadro generale non è certo confortante, l’atteggiamento degli Stati e delle potenze è sempre quello “di essere disposti a rischiare un conflitto parziale”, come sosteneva Anna Bravo, con la presunzione di potere evitare un conflitto generalizzato, limitandosi a schermaglie guerreggiate e diplomatiche. Ma fino a quando? 

Ritornando alla questione israelo-palestinese, lo storico israeliano Ilan Pappé, intervistato da vari giornali italiani, ha sostenuto con grande lucidità che fino a quando non cessa l’atteggiamento colonizzatore di Israele non sarà possibile trovare una qualche soluzione. A conclusione di un incontro tenuto presso la Biblioteca universitaria di Genova, Pappé ha detto: “La storia insegna che la decolonizzazione non è un processo semplice per il colonizzatore. Perde i suoi privilegi, deve restituire le terre occupate, rinunciare all’idea di uno Stato-nazione mono-etnico. I pacifisti israeliani pensano di svegliarsi un giorno in un paese democratico. Non sarà così semplice, i processi di decolonizzazione sono dolorosi: la pace inizia quando il colonizzatore accetta di stravolgere le proprie istituzioni, la costituzione, le leggi, la distribuzione delle risorse. Il giorno in cui finirà la colonizzazione della Palestina, alcuni israeliani preferiranno andarsene, altri resteranno in un territorio libero in cui non sono più i carcerieri di nessuno. Prima lo capiranno e meno questo processo sarà sanguinoso. In ogni caso la storia è sempre dalla parte degli oppressi, ogni colonialismo è destinato a finire”.

Ecco, ma dovrà essere una forte presa di posizione e di coscienza delle popolazioni coinvolte, palestinese e israeliana, capace di rigettare violenza e diffidenza, e un sostegno popolare fuori dalla Palestina ad invertire la rotta ed avviare un reale processo di coesistenza, senza Stati e senza eserciti. 

Angelo Barberi

    

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Noi siamo con

Gli antimilitaristi che in Sicilia, in Sardegna, in Toscana, in Friuli, a Torino e in ogni territorio soggetto a basi militari, fabbriche di morte, poligoni, si oppongono alla guerra, alla sua economia macchiata di sangue, alla sua distruzione dei territori, al suo sottrarre risorse per le questioni più urgenti per indirizzarle verso politiche imperialiste e colonialiste.
Siamo con le femministe e tutte le persone che si battono contro ogni tipo di violenza di genere rompendo gli steccati del settorialismo perché il nemico è non solo il patriarcato, ma alcuni dei suoi frutti come il fascismo, il razzismo, il capitalismo, il clericalismo.
Siamo con le attiviste e gli attivisti No Tav, sempre in prima fila per la difesa della dignità di una comunità e del suo territorio nonostante la montagna di anni di condanne, le decine di arrestati e costretti a provvedimenti restrittivi della loro libertà; nonostante l’occupazione e la distruzione dei loro presidi, prontamente riconquistati.
Siamo con le attiviste e gli attivisti di Ultima generazione e con tutta la militanza ambientalista radicale che non si lascia intimidire dalla repressione e dalla campagna di diffamazione imbastita dalle alte sfere governative e dalla stampa codina, continuando a porre, con l’azione diretta, all’attenzione di tutti la disastrosa china intrapresa dai cambiamenti climatici provocati da un sistema capitalista distruttore e famelico.
Siamo con la classe lavoratrice che, a partire dai trasporti e da tutte le realtà colpite dalla scure ristrutturativa del capitale, sopportano condizioni di lavoro e di sicurezza sempre peggiori e si vedono demolire ogni residua libertà di sciopero.
Siamo con chi lotta contro le grandi opere inutili e dannose, contro i progetti distruttivi dell’ambiente, contro le mafie della speculazione e del malaffare.
Siamo con le realtà associative che, da posizioni difficili, sfidano dal basso l’emarginazione, la discriminazione, il degrado, frutti avvelenati delle politiche speculative ed escludenti, costruendo e tessendo solidarietà, mutualismo e resistenza.
Siamo con la popolazione detenuta, costretta a condizioni di vita infami, e con i condannati a morte dell’ergastolo ostativo e del 41 bis, vittime di una vendetta di Stato anacronistica, interminabile, inaccettabile.
Siamo con gli immigrati trasformati in fuorilegge, in capri espiatori, in causa dei mali della nostra società e segregati in strutture semi carcerarie o della falsa accoglienza pronti ad essere rimpatriati, riconsegnati alle mafie libiche o comunque tenuti lontani dagli sguardi del perbenismo nostrano.
Siamo con i contadini che si ostinano a lottare contro i disastri climatici ricordandoci che la vita, la salute, il benessere sono fermamente ancorati alla difesa della biodiversità, alla lotta contro le multinazionali tossiche e contro la grande distribuzione organizzata.
Siamo con tutti coloro che si battono per la difesa dei beni comuni (acqua, trasporti, spazi, sanità, istruzione) sapendo come lo Stato, che si erge a loro tutore e padrone, sia in realtà il loro e nostro peggior nemico.
Siamo con i palestinesi di Gaza, Cisgiordania e della diaspora in lotta da 75 anni contro l’occupazione della loro terra, l’espulsione e il genocidio del loro popolo. E siamo a fianco degli israeliani contrari alle colonie, al governo sionista e fascista del loro paese. Per una convivenza pacifica e multiculturale, multietnica e multireligiosa di tutte le popolazioni della regione, in un futuro di autogoverno senza stato.
Siamo con il popolo curdo che resiste al regime imperialista turco e a tutti i regimi oppressivi in Siria, Iraq e Iran, che schiacciano la sua sete di libertà e autodeterminazione.
Siamo con i disertori e i disfattisti ucraini e russi che si oppongono alla guerra, agli arruolamenti, alle trame dei rispettivi oligarchi rischiando in prima persona a causa del loro rifiuto del patriottismo e del militarismo.
Siamo con tutte le donne e tutti gli uomini, con tutte le persone a prescindere dal genere di appartenenza, che ovunque nel mondo sono impegnati nella lotta per la sopravvivenza, per abbattere gli ostacoli alla loro conquista di diritti ed eguaglianza, per poter esprimere liberamente il loro modo d’essere e la loro personalità.

Noi siamo tutti loro; tutti loro sono noi.

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